A tutta calce!

Il lagunaggio è una tecnica di depurazione che ha oggi, almeno in Italia, il sapore dell’antico. Troppe cose sono aumentate, la dimensione degli impianti, il volume di acqua da trattare in un singolo sito industriale, la concentrazione dei reflui e, fattore non secondario, il prezzo unitario dei terreni.
Nell’epoca in cui mi è capitato di farne esperienza, le vasche di lagunaggio avevano già raggiunto profondità incompatibili con una corretta gestione. Si trattava propriamente dello stoccaggio all’aperto di ingenti volumi di acque settiche che ribollivano per l’emissione dei gas di fermentazione. Non sorprende pertanto che le autorità locali avessero intimato al responsabile dello stabilimento di porre rimedio all’emissione di odori molesti, pena il fermo degli impianti.
Ebbe la meglio la soluzione del consulente del direttore, forte di secoli di provata applicazione: scaricare nelle vasche ingenti quantità di calce fino a raggiungere condizioni di alcalinità estreme. Dopo un tale trattamento, l’aspetto delle lagune cambiò drasticamente. L’acqua si chiarificò, la superficie assunse un colore giallino e si placò, non più rotta dalla tumultuosa risalita di bolle. Anche gli odori cambiarono. Sparirono quelli nauseanti che avevano indotto le autorità a intervenire, ma ne comparvero di nuovi, più subdoli. Non provocavano un fastidio immediato, aderivano invece ai tessuti e ai capelli, resistendo a innumerevoli lavaggi e conferendo un aroma simile a quello del pesce fresco.
Registrai senza tanti turbamenti i cambiamenti visivi e olfattivi. Dovendo però gestire l’impianto a fanghi attivi per la depurazione delle acque accumulate nelle lagune, espressi subito i miei timori circa la compatibilità del trattamento a calce con quello successivo, di tipo biologico. Il consulente del direttore si sentì punto nell’onore, gli animi si accesero e le mie richieste vennero discretamente ignorate. Nei giorni successivi il depuratore fornì però prestazioni sempre più scadenti e fu necessario ridurre la portata di scarico a valori irrisori, con il risultato che le vasche si riempirono così velocemente da far pensare a un’interruzione anticipata della lavorazione.
Come se ciò non bastasse, la nuova profumazione ittica aveva raggiunto i panni stesi nella vicina borgata e le autorità furono costrette a registrare gli esiti negativi di uno spontaneo sondaggio di gradimento.
Tra il rischio di un’interruzione anticipata della lavorazione e lo scrupolo di non offendere il consulente, il direttore prese una decisione davvero salomonica: continuare con il trattamento, ma con dosaggi ridotti. Nell’arco di qualche giorno, l’impiego di calce diminuì a tal punto da non provocare più alcuna chiarificazione dell’acqua e il depuratore biologico raggiunse e mantenne portate di scarico basse ma accettabili.
Anche sul fronte degli odori le cose migliorarono, benché più per il volgere dell’autunno e l’uso più limitato dei balconi che per la effettiva riduzione delle esalazioni.
Ad ogni modo, la lavorazione stagionale si concluse regolarmente, gli animi si distesero e qualche mese più tardi venne raggiunto il compromesso definitivo: una delle vasche venne dedicata al libero trattamento con calce di un refluo specifico, di portata modesta ma particolarmente ricco di zolfo e quindi sospettato di contribuire in modo determinante all’impatto olfattivo dello stabilimento. Nelle restanti lagune, al contrario, l’uso della calce fu bandito.
Gli effetti del compromesso si dimostrarono nel corso della successiva lavorazione, quando il depuratore potè raggiungere l’incredibile portata di 100 metri cubi all’ora, un record storico per lo stabilimento. Scomparve l’aroma di pesce fresco dai tessuti, le acque dei bacini tornarono a bollire e a emettere odori più urtanti e meno persistenti, ma, vuoi per il contenuto di zolfo inferiore, vuoi per la circolazione leggermente più rapida dell’acqua nelle lagune, vuoi per la paura delle autorità locali di provocare l’invenzione di un terzo imprevedibile tipo di odore, lo stabilimento non ricevette altri ultimatum.

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