Le pietre difettose delle predolomiti

Uno degli incarichi che mi competevano per ruolo era il controllo merceologico dei materiali in ingresso. Il compito era senz’altro utile, ma era anche l’eredità di tempi in cui il personale era numeroso. Ora che, terminata la lavorazione stagionale, il laboratorio di fabbrica si trasformava in un reparto deserto, si imponeva una scelta draconiana tra le diverse tipologie di materiale da controllare. Gli eventi si incaricarono di togliermi rapidamente dall’imbarazzo della scelta.
Il materiale acquistato in maggiori quantità e con maggiore continuità era la pietra calcarea, impiegata insieme al coke per alimentare gli altiforni di produzione della calce. Le descrizioni merceologiche la definivano un insieme di blocchi grosso modo tondeggianti, di colore rigorosamente bianco, con dimensioni comprese tra 80 e 120 mm e privi di terriccio aderente; definivano poi il tenore minimo di calcio e quelli massimi di magnesio, silicio, ferro e alluminio.
Nella realtà, la qualità dipendeva molto dalla cava di provenienza e i carichi ricevuti dal nostro stabilimento, la Cenerentola del gruppo, erano composti da pietre più o meno oblunghe, di colore tra il rosato e l’aranciato, con quantità spesso imbarazzanti di breccia e di terriccio. Provenivano quasi tutti dalla Valle Nuvolera.
Sospettando di essere vittima di una vera e propria truffa, il direttore mi incaricò di eseguire controlli a campione sul materiale consegnato, riferendosi in particolare ai requisiti visibili, e di recarmi presso la cava di origine per ispezionarla.
Il titolare della cava mi indicò un casello autostradale come luogo d’incontro e da qui, nella prime ore della mattina, iniziammo a salire in macchina sulle Prealpi Bresciane. Nonostante la bellezza dei luoghi, l’immagine che domina la memoria di quel tragitto è una enorme discarica di pneumatici, scavata come un cratere tra le cime di basse alture in cerchi concentrici via via più piccoli a imitazione dell’inferno dantesco. Giunti a destinazione, visitammo due cave in tutto simili tra loro e la semplice vista delle attività servì a illuminare le dottorali descrizioni merceologiche di una luce nuova, più utile e concreta.
Per cominciare, nonostante il suo prezzo, il pietrisco risultò essere un sottoprodotto delle attività di cava, che miravano a estrarre blocchi regolari di dimensioni ben maggiori. La forma delle pietre, poi, non poteva che dipendere dalle caratteristiche della roccia, cioè dal suo modo di fratturarsi, poiché i vagli impiegati per selezionare i blocchi in funzione delle dimensioni non erano costituiti da reti, ma da spesse barre metalliche parallele che lasciavano passare tanto i pezzi rotondeggianti quanto quelli più oblunghi, purché sufficientemente stretti. Notai infine che il colore dipendeva molto dalla posizione dei punti di estrazione e il titolare mi informò orgoglioso che ci trovavamo in zona predolomitica. Non si accorse del passo falso: la dolomia contiene infatti magnesio in quantità molto pericolose per l’impiego della pietra calcarea. Ebbi la freddezza di non dire nulla e mi congedai ripetendo la raccomandazione di non inviare più presso il nostro stabilimento il pietrisco raccolto dal terreno con la pala meccanica e perciò pieno di breccia, polvere o fango, a seconda delle condizioni metereologiche. Ci salutammo cordialmente e ripresi la strada per la pianura.
Riferii le mie osservazioni, compresa quella sul magnesio, al direttore, il quale mi raccomandò questa volta di eseguire giornalmente analisi chimiche a campione.
Le settimane successive furono un vero tuffo nel passato. Le analisi merceologiche sono infatti realizzate con tecniche volumetriche e gravimetriche, quelle insegnate nei laboratori didattici e che, dopo le prime esperienze di analisi strumentale, la maggior parte degli studenti classifica erroneamente tra i reperti storici della chimica.
La quotidiana attività di spaccapietre incuriosì non poco i colleghi, che dopo questa parentesi chiassosa, mi vedevano immancabilmente sparire nel laboratorio di fabbrica a produrre acri fumi di acido cloridrico fino all’orario di uscita. Le prime ore del mattino erano invece dedicate all’esecuzione delle analisi sui campioni disciolti il giorno prima.
Molti carichi risultarono effettivamente contenere quantità intollerabili di magnesio e vennero contestati. La direzione tecnica centrale, che non voleva concedere forniture più costose provenienti da altre cave, cercò di confutare i risultati delle faticose analisi commissionando controlli con tecniche strumentali. Richiedendo diluizioni estreme, tali controlli produssero ovviamente informazioni inservibili e nelle settimane successive non mi capitò più di scorgere le belle venature rosate delle Prealpi Bresciane.

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