Mal d’aria

Una sala server, in qualsiasi struttura sia collocata, è oggi l’equivalente prosaico della cella di un tempio. Capita nelle fabbriche che i costosi apparecchi elettronici e gli addetti alla conduzione degli impianti condividano lo stesso locale. In questi casi non è mai in discussione quali esigenze debbano prevalere e gli umani sono costretti a compensare con vestiario fuori stagione le condizioni adatte ai delicati conviventi. Una sala server non è perciò tale se non è collegata a un impianto noto come “uta”, unità di trattamento aria, che mantiene le condizioni climatiche ottimali per il buon funzionamento dei componenti elettronici.
Le uta sono normalmente installate all’aperto, eseguono il loro compito in completa autonomia e sono visitate di tanto in tanto dai soli addetti alla manutenzione, a meno che qualcosa non funzioni come dovrebbe.
Non fece eccezione il caso della uta di una società di reti digitali, che divenne oggetto di straordinarie attenzioni solo quando i segni di una diffusa corrosione furono scoperti sulle parti metalliche di tutti i server patrimonio dell’azienda. Gli esiti disastrosi non potevano che essere attribuiti all’aria che dalla uta proveniva e che alla uta ritornava, risultando più evidenti proprio in corrispondenza dei punti in cui l’aria trattata era introdotta nella sala.
La società si affidò a un consulente, il quale richiese al nostro laboratorio un tecnico che prelevasse campioni sotto la sua supervisione e un parere sulle analisi da eseguire. Circa il parere, l’esperienza mi consigliò la massima cautela e al collega incaricato di farsi braccio del consulente raccomandai di campionare qualsiasi deposito solido che gli fosse capitato di osservare.
Il collega trovò concrezioni in diversi punti della sala e le raccolse in piccoli e distinti sacchetti di plastica. Le quantità erano esigue, ma l’aspetto faceva pensare a depositi salini. Proposi allora l’esecuzione di un’analisi applicata normalmente in mineralogia, eseguibile anche su pochi milligrammi di materiale. Con non poca perplessità, il consulente accettò l’inconsueta proposta analitica, assicurandosi però che almeno i campioni di acqua prelevati su sua indicazione fossero sottoposti ad analisi più ordinarie, che definì lui stesso per evitare sorprese.
Le informazioni ottenute sui campioni acquosi si dimostrarono effettivamente poco sorprendenti, suggerendo una gestione poco razionale dell’impianto, ma quelle fornite dall’analisi mineralogica costituirono una vera e propria sentenza. I depositi erano un miscuglio di sali che si rinvengono in rocce denominate “evaporiti”. Nel certificato del laboratorio erano riportati con le loro denominazioni mineralogiche e quindi con termini inconsueti quali “Halite” e “Carnallite”. Decisi pertanto di anticipare le prevedibili richieste di chiarimento del cliente e inviai un commento sui risultati.
Spiegai che tali sostanze si formano quando l’evaporazione dell’acqua determina la progressiva concentrazione dei sali disciolti fino al punto da provocarne la precipitazione. Descrissi quindi le caratteristiche dell’impianto responsabili del fenomeno e conclusi con la descrizione della presumibile dinamica degli eventi, dalla scorretta gestione della uta allo sviluppo della corrosione sulle superfici metalliche dei server.
La reazione gelida del consulente si incaricò di chiarirmi che quel commento era piuttosto una consulenza e, soprattutto, che non era stato richiesto.
Sul treno che mi portò a casa quella sera, testimone delle consuete scaramucce tra pendolari per l’apertura dei finestrini, meditai su quanti diversi tipi di mal d’aria capiti a volte di osservare.

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