Il ferro malato

(dedicato al Dr Franco Maniscalco)

Credo esista nella vita professionale di tutti un episodio che assume il significato dell’iniziazione al lavoro. Per chi abbia dedicato la prima giovinezza allo studio, tale momento sancisce la preminenza delle cose, delle relazioni tra le persone, del tempo, dei soldi sul mondo del possibile, della teoria. Nei miei ricordi è associato a due sentimenti precisi, la solitudine e lo stupore. La solitudine dell’unico chimico di stabilimento a cui si stava rivolgendo il direttore e lo stupore che una persona così autorevole potesse riporre tanta fiducia nelle possibilità di successo di un neolaureato.
Il responsabile della manutenzione meccanica aveva osservato segni inequivocabili di corrosione nei corpi cilindrici dei generatori di vapore e sulla palettatura del turboalternatore, gli elementi chiave della centrale termica, cuore e motore di tutta la fabbrica. Il fenomeno non era mai stato osservato prima di allora, nonostante la veneranda età di alcuni conduttori di reparto.
Il direttore aveva sùbito assunto informazioni dai responsabili degli altri impianti del gruppo: il trattamento chimico dell’acqua di alimentazione dei generatori era il medesimo, ma il fenomeno di corrosione sembrava manifestarsi solo nel nostro impianto. A me, unico chimico del sito, il compito di trovare le cause e l’incarico di cercare sul mercato un fornitore di idrazina, fino a qualche anno prima il solo e incontrastato deossigenante di caldaia.
Dopo molti anni di sospetti, l’idrazina era stata classificata come cancerogena per l’uomo ed era stata sostituita da una sostanza indicata con il pretenzioso acronimo “deha”, la dietilidrossilammina. Questa era l’unica modifica significativa che i tecnici più esperti fossero riusciti a individuare.
Verificata l’impossibilità di reperire sul mercato il desiderato cancerogeno, mi impegnai in una ricerca bibliografica, da cui risultò che l’uso della deha si era dimostrato efficace in molti altri settori industriali, garantendo il controllo dei livelli di ossigeno disciolto entro le poche parti per miliardo consentite per l’alimentazione dei generatori di vapore a 40 bar, come quelli installati nelle fabbriche del gruppo.
Tutto sembrava indicare una causa specifica, locale, perfidamente nascosta nel labirinto di tubi dello stabilimento. Iniziai allora a infilarmi in ogni parte dell’impianto che lo stato della manutenzione rendesse accessibile – oggi non mi sarebbe consentito di entrare liberamente in così tanti “spazi confinati” – constatando una corrosione diffusa e caratteristica, una sorta di varicella del ferro. La documentazione tecnica consultata la definiva pitting corrosion e l’attribuiva infallibilmente a eccessivi tenori di ossigeno.
Non esistono metodi chimici per determinare parti per miliardo di ossigeno disciolto, né raggiungono tale sensibilità gli ossimetri comunemente impiegati per la misura nelle acque naturali. Non restava perciò che seguire le istruzioni del fornitore della deha e determinare la concentrazione residua di tale sostanza nell’acqua di alimentazione dei generatori. Nonostante gli esiti delle analisi fossero sempre confortanti, ad ogni fermata dell’impianto il ferro continuava a mostrare i sintomi dell’inarrestabile malattia. Per tamponare la crescente insoddisfazione generale, il fornitore della deha estrasse allora il proverbiale coniglio dal cappello, offrendo una misurazione continua dell’ossigeno effettuata con uno strumento speciale da un tecnico altrettanto speciale. L’indecifrabilità dei risultati prevalse però su ogni tipo di specializzazione. Un secondo fornitore, interessato a vendere un precursore non cancerogeno dell’idrazina, offrì a sua volta una nuova misurazione, simile a quella del concorrente ma con strumento e tecnico olandesi. L’indecifrabilità dei risultati fu confermata e il malato continuò a sottrarsi a qualsiasi tentativo di monitoraggio.
La gravità della situazione mi indusse a vincere la diffidenza verso i kit analitici, paragonabile per un laureato in chimica analitica a quella che un pittore di mestiere può provare nei confronti della fotografia. Decisi così di acquistarne uno prodotto da una ditta americana poco nota e basato sulla proprietà dell’ossigeno di formare una sostanza colorata con la rodazina D.
Le concentrazioni di ossigeno nell’acqua di alimentazione dei generatori risultarono sempre superiori alla portata del kit. Gli esiti non vennero però interpretati come definitiva conferma della scarsa efficacia della deha, ma come dimostrazione della scarsa affidabilità di un genere di analisi tanto rudimentale se paragonato alle complicate misurazioni strumentali degli ossimetri. Non essendo possibile simulare valori di ossigeno di qualche parte per miliardo, decisi allora di preparare campioni di acqua completamente deossigenata con solfito di sodio, creando in tal modo l’unico valore di riferimento realizzabile, lo zero. Con tali campioni il kit non sbagliò, indicando la completa assenza di ossigeno e confermando che ogni cosa va giudicata per quello mostra quando è messa alla prova.
La deha fu quindi soppiantata e l’idrazina, cacciata dalla porta, rientrò dalla finestra nelle mentite spoglie di un suo precursore. Il malato si ristabilì lentamente, così come lentamente si erano manifestati i sintomi della malattia dopo il licenziamento dell’idrazina. Feci in tempo ad essere trasferito in un altro stabilimento, a scoprire che la malattia aveva colpito anche il ferro degli altri impianti e a vedere il kit con rodazina D adottato dai fornitori di trattamenti deossigenanti.
Fu un successo soprattutto per il venditore dell’idrazina “mascherata”, a cui è dedicata questa storia, il primo a intuire che i sintomi erano dovuti a una malattia a lungo incubata e che il paziente avrebbe rappresentato solo il primo caso diagnosticato, ma anche il migliore alleato che un chimico solo e inesperto ebbe a fianco nel momento della sua iniziazione professionale.

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